Tutti vorremmo sapere le ragioni perché le relazioni falliscono ← ma nessuno si è mai fatto la domanda se si è pronti ad amare

Un utile vademecum in rete lo si trova nelle famose 36 domande per innamorarsi in 45 minuti ← se volete fare intanto allenamento. Perché si sa, ci vuole impegno e costanza come se dovessimo fare una maratona o qualificarci per i Mondiali di Atletica; senza sforzo, abbiamo la via più facile come quella di sfogliare la mattina al bagno le App di appuntamenti online sul nostro smartphone. Il dating, come lo chiamano negli Stati Uniti, e soprattutto quello Dating online sta minacciando la monogamia ← . L’anno precedente ci ho messo del mio, mi sono allenato e di maratona ne ho fatta una mezza.
E per quanto l’espressione della fatica sul mio volto all’arrivo a Central Park possa non avere qualcosa di romantico, vi assicuro che le braccia alzate per la vittoria personale e la bocca a urlo di Munch rappresentano lo sfinimento. Se volessimo invece fare un paragone con l’amore, una relazione non dovrebbe mai prendervi per lo sfinimento, se volete cominciarne una. Chiasmi a parte. Almeno però potreste iniziarla facendovi sposare da me. (Attenzione, in questo post vi è un inserimento pubblicitario).

Sono diventato infatti Ministro per matrimoni per la Chiesa Universal Life. Ho preso i voti nel Monastero laico d’America!

In pratica posso celebrare matrimoni e addirittura funerali (ma non divorzi ← nel link un interessante punto di vista sull’inconveniente verità tra amore e divorzio).

E posso celebrare le unioni, laicamente, senza nessun connotato religioso. Tutto legalmente riconosciuto dallo Stato di New York e dallo spirito che gli Sposi vorranno darvi: buddhista, cristiano, pagano, tra coniugi dello stesso sesso… insomma posso personalizzare ogni scrittura di cerimonia.

Se volete quindi una App di frequentazioni online migliore di quella a cui siete abitutati/e, pensate a come progettare al meglio la vostra futura vita anche di molteplici amori e triadi. In un mio profilo di codeste App, regno appunto del poliamore (che, secondo l’articolo linkato prima sul dating che uccide la monogamia, pare prevedere) una volta ho scritto “tutte qui che dicono che vogliono un uomo che le faccia ridere, ma mai nessuna che voglia un uomo che le faccia piangere… di felicità”.

Ecco, se venite a New York, pensateci e chiamatemi. Ma, mi raccomando, non sfogliate il catalogo quando siete in bagno!

Una testimonianza in questo video breve.

I have always wanted to marry a couple and starting a celebration in Italian with a literature opening like this in the Promessi Sposi by Alessandro Manzoni:

The branch of Lake Como that turns south between two unbroken mountain chains, bordered by coves and inlets that echo the furrowed slopes, suddenly narrows to take the flow and shape of a river, between a promontory on the right and a wide shoreline on the opposite side. The bridge that joins the two sides at this point seems to make this transformation even more visible to the eye and mark the spot where the lake ends and the Adda begins again, to reclaim the name lake where the shores, newly distant, allow the water to spread and slowly pool into fresh inlets and coves.

New couples that want their ceremony be celebrated by me in both languages, can expect everything and they can ask me any opening remarks as they want, of course.

When I was an officiant for two friends, they didn’t expect my sermon was a mix of poetry and reality. Because harsh reality is a specialty of real literature, like in the famous book The Betrothed. And the past year was the right timing for “The Betrothed” (“I Promessi Sposi”), written in 1842, by the Italian writer Alessandro Manzoni, now in a new translation—the first in fifty years—by Michael F. Moore. (The book has been published by the Penguin Random House)

Here is a presentation in English at Casa Italian Zerilli Marimo’ in New York.

Why do you think this novel (and this translation) have struck a chord with contemporary readers? It’s not just the story of a peasant couple that simply wants to get married and is prevented from doing so by the whims of the powerful. Read the New Yorker review to learn more.

“Manzoni forged the modern Italian language, and his novel—yes, he wrote only one—is still the greatest novel in the Italian language”, like the American magazine reviewed.

The timing was perfect when many scholars quoted the novel to remind readers how plagues are déjà vu.  Me, as a podcaster, I also aired this audio reading (in Italian ) https://anchor.fm/emanuele-capoano/episodes/La-peste-al-tempo-dei-Promessi-Sposi-ed0lce

In fact, “The Betrothed” were frequently cited after the Covid-19 pandemic struck Italy in 2020, originating again in Milan and its environs.

Here they are two important interviews in Italian newspapers.

Here also a wonderful and sharp interview on Italian National Radio

“I promessi sposi,” as it is known to all Italian schoolchildren, is a work of foundational national literature on par with Dante’s “Divine Comedy” and Boccaccio’s “Decameron”—the cornerstone work of “Italy’s first and finest novelist. We were forced to read it in school, as a kind of national treasure to be admired rather than enjoyed, as NYBOOKS review mentioned it as polyphonic past.

“Now the English-speaking world can discover what the fuss is all about”, the Wall Street Journal said.

And as in an Italian Comedy, the bailamme is ensured too here! I’m not the scared priest “Don Abbondio” as in the book.

Una critica d’arte si chiese un giorno perché nella storia dell’arte non esistessero grandi pittrici. Per le stesse ragioni per cui non esistono grandi tennisti eschimesi (assenza di campi, insegnamenti e tempo per praticare).

Non è solo contro il politicamente corretto (nel link un articolo su Il Corriere dove Costanza Rizzacasa D’Orsogna dialoga con Walter Siti e Jonathan Bazzi proprio sull’argomento) contro cui si scaglia il bellissimo saggio appunto dello scrittore Walter Siti edito da Rizzoli e dal titolo CONTRO L’IMPEGNO. Riflessioni sul Bene in letteratura. Va oltre, raccontandoci con ironia quello che rimane della vera letteratura dopo generazioni: vale a dire se quello che rimane, dopo il susseguirsi di culture che cambiano, è ancora valido allora può definirsi tramandabile. È l’idea anche del “lettore implicito” cioè del lettore che ogni scrittore ha presente mentre scrive, un lettore impregnato dei pregiudizi del proprio tempo. Ma ogni lettore reale si trova a confrontarsi con quello implicito. I suoi parametri culturali sono diversi: chi non vede nei testi che storture da raddrizzare e chi si scandalizza perché viene distorta e mutilata la tradizione. Ecco come spiegare a una classe di 18enni i versi misogini di Leopardi dunque? – Ciò che va bene in un posto è sbagliato in un altro: ciò che è bene per un popolo è abominio per un altro.

Oggi per Walter Siti c’è anche il rischio eccessivo di trigger warning, di avvertenze che potrebbero dissuadere dalla lettura: la letteratura del passato gronda di presupposti non condivisibili per i posteri, quegli stessi presupposti su cui si fonda la letteratura di oggi. Nei classici non è difficile rintracciare posizioni razziste, misogine, omofobe, antisemite, classiste, ma anche elogi della tirannia, della violenza, dell’omicidio, dell’incesto, di ogni genere d’oscenità e perversione. A seconda dei periodi storici e della delicatezza dei lettori, anche la confessione al marito di amare un altro uomo, o una partita di caccia o una bistecca al sangue mangiata con gusto o troppe sigarette fumate, o una donna remissiva in amore o un omosessuale nevrotico possono mettere a disagio.

Per il resto della raccolta di mini saggi, Siti ci va addosso di brutto sul cosiddetto “Engagement dei contenuti”, l’impegno ideologico legato a temi di cronaca che non fa bene alla letteratura. C’è il rischio di scrivere versi acchiappa-consenso, capaci di solleticare quel che la gente vuol sentirsi dire. L’engagement rate in marketing è infatti il quoziente che calcola l’efficacia di una fan-page. Il trending topic, cioè gli argomenti che assicurano al sito il massimo di visualizzazioni. È così che nascono i libri a tavolino nelle redazioni delle case editrici, magari già con le fascette editoriali, se solo dicessero il vero?

L’arte, per Siti, è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato: è ambivalente, dà ragione a chi ha torto e torto a chi ha ragione. I personaggi a cui il lettore dovrebbe affezionarsi, dovrebbe anche poterli odiare. Ma la letteratura può dare cittadinanza a Satana, mentre il giornalismo non può permetterselo. Il rischio della funzione emotiva della letteratura quando in realtà potrebbe prepararci a superare i nostri fallimenti facendoci sentire spaesati, smarriti. Le poesie possono dire quel che l’autore non sa di voler dire. E i romanzi riusciti condensano nel proprio spessore opposte verità. La letteratura si fonda proprio sull’ambiguità.

L’autore assegna alla letteratura il compito di “dire la verità”, e genericamente alle “storie” quello di “coltivare l’empatia”. Walter Siti pensa che la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità; che serva a mettere ordine nel caos, ma anche caos nell’ordine. Politicamente la letteratura è sempre inaffidabile. Mentre per un politico scatenare l’irrazionalità è pericoloso.

Il maggiore obiettivo della letteratura non è la testimonianza o fare del bene -dice Siti (soprattutto quando ricorda un caso negli Stati Uniti dove veniva perorato il risultato di una ricerca scientifica, la solita, che diceva che leggere libri fa bene alla mente, tranne poi accorgersi che negli U.S.A. i dipartimenti umanistici universitari vengono sovvenzionati meno rispetto a quelli tecnologici, forse per questo ne veniva diffusa la bizzarra ricerca) ma l’avventura conoscitiva: la parola nella letteratura può affermare una cosa e contemporaneamente negarla, perché ambigua è la nostra psiche. Quella ambiguità, quella polisemia fanno emergere quel che non si sa ancora: per questo la letteratura è rivelazione di ciò che non volevamo sapere e non può prestarsi a fare da altoparlante a quel che già si crede giusto. In letteratura i personaggi colpevoli sono anche innocenti. E gli innocenti hanno anche la loro colpevolezza.

Una tipologia di vittima particolarmente adatta al romanzesco pare essere -sempre secondo lo scrittore contro corrente- quella del migrante; la drammaticità del viaggio, la forza tragica degli avvenimenti (chi non si sente straziare se una madre perde il proprio figlioletto tra i flutti?) l’esistenza di cattivi stereotipati come il trafficante, il torturatore, il politico cinico, tutto congiura a far salire l’impatto emotivo e la tensione retorica dell’avventura – senza dimenticare che, negli squarci di nostalgia per la patria abbandonata, può prender posto una vecchia conoscenza della letteratura di intrattenimento, cioè l’esotismo. Tutto a poco prezzo, una lacrimetta sdraiati sul divani (o magari di più, una momentanea ribellione, una presa di coscienza, la donazione a una ONG, ma diluite in un clima generale di impotenza, di siamo-tutti-vittime-di-qualcosa). E cita l’esempio di come alcuni autori invece si sono occupati di migrazione lontano da quella retorica, come Catozzella o la Mannocchi.

Continuano gli esempi in dettaglio scandagliando la semantica di romanzi, da Saviano a Murgia, da Carofiglio a D’Avenia, da Buttafuoco a la Fallaci (troppo vicino alla cronaca) fino alla francese Valerie Perrin, passando da cosa è diventato oggi il webbabile citando il saggio The Game di Baricco.

Un capitolo a parte è la critica televisiva su una puntata di un programma di Barbara D’Urso, dove tra gli ospiti vi è l’attore porno Rocco Siffredi. Vi lascio la sorpresa di sapere chi tra i due, secondo lo scrittore Premio Strega nel 2013, debba essere considerato letteratura per il contenuto interiore del dramma e l’altra no.

Visto che manco da molto nel raccontare gli scorci americani, torno con un pezzo di un temino scritto in inglese in un corso di scrittura creativa di tanto tempo fa. Nelle foto qui sotto ci sono gli errori e le correzioni dell’insegnante dell’epoca. Ma la cosa curiosa risulta il fatto che la pensavo esattamente in tema con il mainstream. Mi spiego meglio, ora che sono diventato anche cittadino americano, sono autocritico anche con certi atteggiamenti della cultura in cui vivo, per esempio gli americani chiedono scusa sempre; come ha detto una volta il mio amico che si fa chiamare Howard Travis Fante del blog La mia vita a stelle e strisce: “Ma che siamo in un film di Mary Poppins qui?”. Qui viviamo infatti in un eterno miele per la troppa educazione. Forse la gentilezza a tutti costi nasconde l’ipocrisia del New England americano? Ma questa può essere un’altra storia. Come già scrivevo infatti nell’elaborato della scuola di scrittura qui sotto postato, ce l’avevo con la contraddizione tra la forte coscienza femminista e il chiedere scusa ogni due per tre.

Ora, bisogna sapere che la mia ragazza l’altro giorno mi ha detto che sono un falso femminista. Qui mi è caduto l’intero pilastro in cui credevo (anche se si nota il contrario in questa mia prova di componimento in una lingua non mia), e il suo impianto accusatorio è che faccio comunella quando sono in modalità  BROMANCE con altri amici maschi. Il mio avvocato della difesa d’altra parte, nel cambiare discorso, mi consiglia che della questione se ne è parlato qui, del perché le → donne dicono sempre “sorry” e cosa dovrebbero dire. Soprattutto quando si tratta di → chiedere continuamente scusa nel mondo del lavoro.

C’È UN VIDEO DI 1 MINUTO DA VEDERE SU TIME A QUESTO LINK https://time.com/2895799/im-sorry-pantene-shinestrong/ CHE PARLA PROPRIO DI COME LE DONNE DOVREBBERO SMETTERE DI CHIEDERE SCUSA OGNI VOLTA AD UN CAMERIERE PER CHIEDERE DELL’ACQUA SE SE LA DIMENTICA OGNI VOLTA DI PORTARLA, O AD UN PASSANTE CHE SPILLA LA SUA BIBITA SUL LORO VESTITO, O AD UN AMICO CHE… ↓

Insomma, ero già avanti nei tempi, prima di diventare americano! E l’insegnante, donna, mi aveva pure messo un “Good”. Tié!

Gli americani a volte fanno autocritica e cercano di spiegare a loro stessi che non sono il mondo, ma non sempre. Tutti si ricorderanno di Trump come quel Presidente che facilitò l’assalto al Congresso da parte di uomini vestiti da barbari con le corna, o come colui che risponde ai politici tramite i suoi Tweet sgrammaticati, o che addirittura venga giudicato con un processo di impeachment postumo, roba mai successa! Ma di Trump e della sua amministrazione si sa che ha varato dei cambiamenti di cui molti noteranno solo nel tempo. ← Dall’Obamacare alla pessima gestione del Coronavirus, dall’influenza delle scuole e delle università religiose alle nuove regole sui finanziamenti (poi si dice della nostra influenza vaticana), dai droni agli aumenti salariali alle restrizioni dei visti anche per lavoratori qualificati, dal riciclaggio delle grandi multinazionali alle regole per i dipendenti di aziende accusati di molestie sul lavoro… (leggete insomma il link all’articolo in cui si parla di tutto questo, apparso su Politico). Roba da riempirci pagine per un film d’inchiesta.

Ma una volta che Trump ha lasciato la sua scrivania di potere ← fatta di adulazioni, dovrà inventarsi il seguito, il sequel della sua saga televisiva, e lui è abbastanza abile a scriversi la propria sceneggiatura e a reinventarsene il mezzo (leggete infatti quest’altro articolo dove spiega in inglese tutto questo, è linkato qui sopra ed anche questo è apparso su Politico).

Il conflitto cercato e fatto ad arte, la ricerca di un vincitore e uno sconfitto nel dibattito inserito nell’agenda della comunicazione, l’antieroe o il villain, l’agente del caos, emozionalmente inaccessibile, sorprendemente carismatico… tutti questi fattori fanno parte infatti della strategia di quell’attore di terza fila che è Trump. Per questo motivo ha sempre cercato l’uscita di scena per un migliore impatto televisivo.

Pensiamo infatti a Walter White di Breaking Bad, o a Don Draper di Mad Men. Ma la lista sale con Kendall Roy in Succession, con Marty Byrde in Ozark, con Tony Soprano o con Frank Underwood di House of Cards. L’antieroe si imbarca delle verità, crea il suo codice di convenienza morale, supporta i personaggi che gravitano nel suo vortice, ci fa vedere le fragilità di tutti noi spettatori facendoci sentire meno venali e corrotti. Se provassimo a scriverne un dramma o una serie televisiva, uno sceneggiatore prenderebbe spunto per piazzare un tizio che ha perso un po’ della sua energia giovanile, un avatar per boomers che fa loro ricordare la propria età d’oro e che faticano a riprendersene i fasti.

Tutta roba di cui Trump conosce bene e che piazza allo spettatore tramite la sua storia di venditore in un trucco dove la memoria traumatica o un segreto di cui cova (o il furto di identità nel caso di Mad Men) o un problema di salute (nel caso di Breaking Bad) o le difficoltà iniziali di povertà siano un terreno dove ognuno si possa riconoscere.

Gli spettatori non hanno bisogno di provare simpatie per l’antieroe, ma devono essere impressionati da 1-quello che fa (la pubblicità per Don Draper, la chimica della droga per Walter White); 2– sapere che il suo microcosmo di affari sia la crescita di un Sogno Americano voluto da ognuno e le difficoltà superate per arrivarci le riconoscano in tanti; 3– sentirsi in un’epoca ben definita come la Madison Avenue degli anni ’60 in Mad Men, l’Inghilterra di Downton Abbey, non l’anonima Springfield dei Simpson; 4– riconoscere i suoi protegé o la sua famiglia o un mentore come un ruolo di aiuto alla storia; 5– riconoscersi nel riscatto degli oppositori al protagonista, che facciano da nemesi o da vendetta o da duello; 6– Sesso, corpi nudi, cadaveri da nascondere, droghe nascoste verranno in un secondo momento (magari attribuite ad altri) addirittura se si inizia con un bel party iniziale, con un battesimo di un Padrino o com una festa finale che faccia da anteprima a quello che poi possa succedere in futuro; 7– un’esplosione dove tutti siano salvi (e lo abbiamo visto il 6 gennaio con Trump che incitava i suoi accoliti ad invadere Capitol Hill) e che tenga la suspense attiva, con qualche inserimento simbolico a certo tipo di letteratura colta, che sia l’Inferno di Dante o le teorie di Quanon che impressionano gli amanti del complotto.

Il nuovo capitolo intanto viene riscritto. E mentre gli Stati Uniti stanno aprendo un altro scenario politico, come spiega il buon Davide Mamone su L’Espresso, la nuova Amministrazione Biden vara una raffica di decreti per cancellare intanto Trump dalla memoria “legislativa” o addirittura confermare alcune delle sue imposizioni sul commercio o sulla politica estera. Ma se la macchina industriale degli scrittori di Hollywood fatica a riprendersi per la mancanza di modelli negativi o di conflitto, l’ispirazione non tarda ad arrivare, soprattutto vivendo in questo clima di pandemia che ci ricorda la ricostruzione dopo ogni guerra.

E quando ci si immagina un’apocalisse, dovuta magari al paradosso del tempo creato da un marchingegno fantascientifico, la memoria va allo sceneggiatore di Ritorno al Futuro quando si era ispirato proprio a Donald Trump, e alla sua volgarità, per dipingere il colorato e grottesco personaggio di Biff.

Sipario!

“L’identikit dei rapitori in un dirottamento con ostaggi: ordini urlati tipici dei gruppi non organizzati. Con loro bisogna evitare ad ogni costo di perdere la calma: meglio che pensino di avere tutto sotto controllo.  Comunicare con i sequestratori senza però mai discutere i loro ordini o le loro motivazioni alla stregua di restare sdraiati a faccia in giù; non reagire durante la cattura e non far capire di aver riconosciuto i carcerieri o non dare l’impressione di aver capito dove ci si trova. Per la propria incolumità personale, l’ideale è rimanere a pancia in terra quando la polizia verrà a liberare gli ostaggi. E in caso di fuga… “ – suona la campanella della fine della classe. Siamo in una scuola di polizia.

Non è un manuale antiterrorismo ma l’inizio di un racconto scritto 20 anni fa che prendeva sviluppo verso un cortometraggio. Anche questo l’ho ritrovato in un cassetto dei miei appunti. I traslochi non lo hanno inficiato.

Poi leggo ancora per curiosità, se vale la pena estrarre un’idea valida tutt’ora. La storia continua con una donna da pedinare e l’immagine in soggettiva è la figura di un obiettivo fotografico. Le immagini vengono trasmesse dal nervo ottico alla corteccia visiva e poi archiviate nell’ippocampo. Mentre l’occhio del presunto “molestatore elettronico” segue questa ragazza fare il minimo movimento per strada, anche come muove i muscoli del collo per porgere le labbra, fino a perdersi verso uno spogliatoio femminile, dentro la mente del pedinatore scorrono immagini di istruttori di tennis che insegnano a giovani tenniste come impugnare una racchetta, o un toro che sbatte contro una rete da tennis. La solita roba sessuale di un erotomane? E la storia mi fa un po’ sorridere, perché evidentemente sta parlando il me stesso di 20 anni fa. Che strano… mi ricorda però qualcosa che ho già visto.

“Ah eccola di nuovo! Si muove lentamente, vuole prendere tempo. Vorrei sapere perché si trucca ma lascia naturali gli occhi e le labbra? Beep. Ha paura d’intimorire. Beep. Si muove a scatti. È coccolona con le amiche, l’amica accanto sembra passionale, la terza sembra trasgressiva per come si comporta ma il nostro target si comporta cooperando, come con i terroristi. Beep. Fa volteggiare la forchetta nel piatto, mostra i denti e prolunga il movimento del collo, si protegge il busto con le braccia. Mostra segnali nascosti da leader. Beep.  Da come cammina sembra perfetta nelle movenze e nelle forme. Beep. Raccolta di tutti gli elementi utili all’operazione.”

Prima ancora dunque dell’invenzione della parola “stalker”, io già ne scrivevo 20 anni fa. Ma non sono un genio, forse ci avranno pensato tutti quegli autori il cui pallino e la formazione cinefila erano Kubrick o il David Fincker di Fight Club.  Non è soltanto il ruolo dello stalker che mi ricorda qualcosa che ho visto…ecco cos’ è, è l’incipit della serie televisiva YOU in onda su Netflix.

Vent’anni prima potevo vendere i miei diritti a Netflix! Che creativo coglione che sono!  Senza sapere che poi uno dei due fondatori, pensionato già a 40 anni per averne venduto le quote, fu ospite del mio matrimonio perché amico di ex parenti. Ma quella è un’altra storia.

La piega finale del mio racconto in questo caso era diversa: lui era un poliziotto alla ricerca di una terrorista. L’aveva individuata, fa in modo di incontrarla e ci va a letto. Ma dalla radio centrale, dove possono leggere la sua mente, si accorgono che lei lo ha incastrato perché ha scoperto che lui era un robot: lei si riveste e scappa e lo lascia sul letto morente con i fili elettrici spezzati e i circuiti al posto degli organi. Finale splatter e robotico, vabbe’.

Capita che una storia scritta anni fa, riemerga sotto forma di altre idee o di situazioni intervenute nel tempo, come lo stalker innamorato e ossessivo-compulsivo in YOU. Da anni non ho dimenticato il pallino che ho in un altro cassetto e che mi porto dietro nei traslochi e ogni volta me ne porto dietro lo schema e lo guardo. E tutte le volte che ci do un’occhiata ripenso al fatto che il mio personaggio debba far parte non di questa realtà temporale o mentale, anche se la caratteristica che gli ho dato è stata già sperimentata in questo film divertente:

Penso sia positivo che sia stata utilizzato questo espediente nella commedia, perché se la storia sta in piedi,  svilupparla verso una trovata che abbia un senso tragico o drammatico è la giusta direzione visto che è una situazione che esiste già nella vita reale come in questo caso: https://video.repubblica.it/embed/edizione/bologna/bologna-ecco-rain-man-ragazzi-autistici-assunti-per-controllare-i-sistemi-di-sicurezza-nelle-ferrovie/321042/321669&width=320&height=180

Avviene spesso che a scriverne un identikit, la piega che prende sarà un’altra storia: la mia stavolta penso sia quella non di un rapitore ma di un rapinato. Prima che gli scrupoli della fantasia di un autore che mi legga nella mente superi la cronaca.

A New York quando riceviamo un invito da una donna devo ammettere che noi uomini ce ne inventiamo di tutti i colori, specialmente se non abbiamo voglia di vederla, se abbiamo un’altra in mente o semplicemente abbiamo altri impegni, ma succede anche che lei inventi delle scuse poco plausibili se siamo noi a chiamarle. Giuro, ho visto gente rispondere «sabato mattina alle 10 devo stirare. Però avrei anche una conferenza sul codice Html e i Css informatici».

Drogati di ozio, couch-potato, pantofolai, netflixari. Ma poi, questo dating←che cos’è? Mi chiese tempo fa una ragazzina italiana di 18 anni appena sbarcata a New York. Beata ingenuità!  (←nel link il bellissimo articolo di Annalisa Merelli a New York sulla sua storia personale e le differenze con le abitudini del rimorchio nella Grande Mela).

A dir la verità mi sarebbe piaciuto essere un Robin Hood che ruba ai belli per dare ai brutti. Il matchmaker degli sfigati. Così, tanto per inflazionare il mercato ma dando la possibilità di tirarsela a chi non se lo potesse permettere.

Poi avrei fatto il Cirano, suggerendo le frasi ad effetto… non sapendo usarle per me perché è ovvio che in casa del calzolaio si cammina con le scarpe rotte.

Devo ammettere che non era tanto una cosa originale, infatti negli Stati Uniti tempo fa avevo sentito che erano già nate le pick-up lines, una linea telefonica che avrebbe sciorinato frasi per rimorchiare, le parole da usare per rompere il ghiaccio e attaccar discorso con una ragazza. Se ne trovano tante online. Un suggerimento che darei anche a quelli come me che arrivati ad una certa età (dopo un divorzio e i primi due anni felici da single a New York) e diciamo lontani da una spensieratezza e un menefreghismo tipico del 25-30 enne sprezzante del pericolo, è di fare selezione. Esattamente come la fanno le donne. E poi di riprendersi la sacra fregna, ← come ci suggerisce la brava scrittrice anonima de Linkiesta.

Sì perché il femminismo non ha comunque attecchito in quello che ancora spetta agli uomini: lanciare l’esca per primo spetta al maschio; si sa, frasi tipo alla Woody Allen funzionano meglio di quelle più trite: «Lei ha esattamente la faccia della mia terza moglie» – Lei: «E quante volte è stato sposato?» – «Due». O tipo «sono un pubblicitario, mi scusi, vorrei sapere quanto la paga (inserire marca dei jeans a piacere) per farle indossare questi jeans e farli sembrare così belli». Ma per il maschio americano medio che non sa come vestirsi e di moda ne capisce come io di elettronica o quantistica non mi sembra verosimile.

In un college americano, precisamente al Boston College 4 anni fa partì un assignment, un compito, all’interno di un corso di filosofia (in cui erano incluse discussioni sulle scelte morali),  l’esecuzione del quale avrebbe dato molti crediti allo studente se fosse andato ad un appuntamento con una ragazza. Una delle richieste necessarie e obbligatorie prevedevano almeno tra i 45 e i 90 minuti di interesse romantico, visto che molti studenti chiedevano di sapere da dove iniziare e cosa dire.

Nelle linee guida del compito era previsto: chiederglielo in persona di uscire, non tramite messaggio su facebook; deve essere una persona con cui non sei mai uscito; organizzare l’appuntamento entro tre giorni dopo averlo chiesto; non chiedere all’altra persona dove andare, decidilo tu; paga al primo appuntamento (su questa non sono d’accordo, e se non ce ne sarà un secondo?); non era concessa una uscita in compagnia, senza terza ruota del carro o amici che ti fanno da spalla; alla fine si doveva scrivere due pagine di tema per descrivere come fosse andato, sia nella conversazione che i propri pensieri a riguardo.

I no aiutano, si sa. Soprattutto se spingersi oltre le proprie capacità sembra un grande impegno nella scena odierna degli appuntamenti romantici.

La sceneggiatura di un incontro era un’altra quando i nostri padri o nonni si corteggiavano, e le aspettative si sapevano già dal momento in cui si lanciavano il primo sguardo.

Oggi invece non abbiamo tempo, in palestra non ci parliamo nemmen più… preferiamo andare alla conferenza dei codici informatici del sabato mattina.

Ma c’è ancora chi dice, ahime, se fossi italiano staremmo già a farlo in un cespuglio, come in questo video.

Se si vuole riscoprire chi eravamo e come siamo rimasti uguali nell’amare o nel cercare l’amore nonostante le esperienze diverse negli anni, un consiglio che do è quello di cercare nei propri cassetti. Non lo fate se il vostro analista non ve lo consiglia o se il vostro cuore non regge, benintesi. Io ci ho messo un po’ per rileggerla, avevo deciso di riaprirla e farle prendere respiro e me la sono portata in tasca per giorni a lavoro, in metro…senza aprirla subito, quasi a volerci prendere l’abitudine, come quando si entra pian piano nel mare i primi giorni di estate e ci si bagna un po’ alla volta per il fastidio del freddo improvviso sulla nostra pelle.

In uno dei miei traslochi, la cura dei ricordi era stata tale che sapevo però dove trovarla, sapevo che c’era: la brutta copia di una lettera che spedii tra le pagine del libro “Le relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos alla ragazza che me ne prestò una copia intorno al 2002. Ho deciso quindi di ribatterla e correggerla e metterla qui. Dallo stile, si vede, mi ero fatto prendere dalla lettura settecentesca del libro francese epistolare, quasi un gioco tra i noi due di allora. So che lei mi starà leggendo e che ci faremo una grande risata a cuore aperto. Siamo due persone diverse oramai, ma uniti in una purezza che non scade.

Un sentimento comune a quello che oggi vedo spesso quando una donna mi colpisce al cuore è che mi allontano per la paura. Quasi non meritassi quella bellezza, combattuto dai dubbi “ma perché me?” – Quasi mi sentissi in colpa (all’epoca la ragazza in questione era fidanzata).

Non lo fate se volete riscoprire da dove siete partiti. Vi ho avvisati.

Alla mia “nobile” amica, all’anima poetica con la quale ho condiviso i sorrisi, dedicherò queste poche righe dove poter comporre le note giuste dei miei pensieri. Pentagramma di sensazioni questi bei momenti di maggio… vuol essere un’armonia questo mio ringraziarti col cuore in mano per la grazia e la vicinanza con cui mi hai invitato, Elena, a leggere ed immergermi in un codesto trattato d’amore! Va detto che un manuale di strategia erotica o di buone maniere del linguaggio (tra quelle vere e quelle false) rende molto suscettibile la nostra età già così disposta naturalmente a conoscerne tutte le loro strade: con te, amica, camminerei a lungo fino a scoprire sempre più nuove vie che gli anni riserveranno ai nostri volti. Già, il tuo volto così bello quando parla, il tuo nasino così antennina di farfalla quanto buffo nel suo dirigere le onde e i suoni della voce… tutta la tua persona mi piace respirare! Respirare così imbambolato e indifeso dentro un tuo abbraccio di sguardi…. mi piace respirare curioso e affabile nell’ascoltarti e nel “dilettare insieme in società”.
Bisogna pur comprendere però che il vissuto nell’ultimo periodo della nostra scuola di recitazione l’ho caricato di abbassamenti di umore, insonnie incomprensibili che non avevo mai affrontato, miei nervosismi implosi che mi hanno indotto ad essere fortemente vulnerabile nonché svuotato di energia, dunque bisognoso di circondarmi d’affetto.
Ti prego, visto che accenno all’argomento, se ti ho provocato malumori apparenti, se sono stato sgarbato col mio stato rendimene notizia e giustizia. Ma, per riprendere il discorso, non sono così cupo e misterioso come qualcuno crede. È che mi demoralizzo se mi capita un evento svantaggioso o se sopraggiungono molti sensi di colpa nella mia vita.
Tanti fattori mi inducono a chiudermi nella mia riservatezza. Tuttavia non è di questo che volevo parlarti.
Il comportamento che vorrei prendere nell’immediato seguito della nostra amicizia vanno appunto spiegati su questo umile foglio, alla luce delle emozioni e dell’abbassamento d’umore di cui parlavo prima. Col tempo e col distacco da un cieco vortice verso il respiro, capirò cosa provo riguardo alla nostra voglia di conoscersi meglio.
Non è stata la maschera del personaggio, questo lo so per certo, che mi ha aiutato a nascondere alcuni sentimenti puri, ma solo la realtà dei tuoi legami quotidiani; di sicuro la finzione in genere mi ha penalizzato, mi ha condizionato nell’apparire diverso ai tuoi occhi per come mi sento di solito.
Mi perdonerai quindi (e quale migliore occasione come questa dove esprimo la mia felicità nell’averti conosciuta recitando e non…) se mi sono fatto assorbire da un “battito” puerile, forse superficiale magari per te fuori luogo, per me troppo istintivo (ma che ho sentito poche volte nella mia vita), quel battito sentito “leggendo” la tua anima (ripeto, non mi sono fatto avvolgere dal “percorso dei sensi teatrali” e sono riuscito a distinguere il palco dalla nostra vita ordinaria, senza appunto mescolarli).
Se decido però di diradarmi da qui in poi (sempre se ci riesco) un po’ di più, se sentirai distanza non è perché non mi interessa frequentare la tua vita, ma è perché non voglio farmi ancora del male, e poi perché ti rispetto. Ti prego, reagisci come meglio credi e come la spontaneità ti induce a ricevermi. Era solo per avvertirti, per evitare malintesi. Tu essendo mia amica mi aiuterai di sicuro col tempo a capire cosa provo, a placarne almeno i fuochi.
Intanto mi sono scoperto ancora di più! Per questa volta nella vita non sono riuscito a spiegartelo di persona. Questa piccola epistola basterà. Solo perdendomi -citando Nietsche- dovrò poi ritrovarmi. Ti voglio bene. Un bacio pudico sulle tue labbra.

Lavorare in teatro negli Stati Uniti mi ha fatto scoprire un lato giocoso nell’uso delle parole. Le prime cose che uno nota anche a New York   ← non sono soltanto le differenze culturali, ma per noi che lavoriamo in teatro risulta una sfida confrontarsi sul prendersi gioco del linguaggio stesso.

Se per esempio siete in una città di cui non conoscete la lingua, tipo una metropoli come New York, dovrete ricordare per forza di cose le istruzioni che un viaggiatore deve e non deve fare quando arriva a New York  ← ma in questo caso le istruzioni per l’uso sono fatte per essere trasgredite. Sul palco, come a scuola in una classe di lingua straniera, giocare soprattutto con il Grammelot diventa una performance che aiuta a liberare l’immaginazione e la fantasia, così lo spettatore può essere paragonato a quel genitore affascinato e in estasi che perdona il proprio bambino quando pronuncia le prime parole seppur sbagliate e senza senso. L’attore, come lo studente di una lingua straniera, permette allo spettatore/insegnante di indovinare la lingua in cui sta parlando, come l’esempio di gioco sul Grammelot che ne ha dato la prestigiosa scuola National Theater di Londra.   ←

Ogni scenario ha una vita nascosta che si sviluppa e che lo scrittore poi crea da sé   ← questo lo avevo già raccontato, ma anche i suoni che imitano le parole come satira del linguaggio negli sketch di Lillo e Greg, da Corrado Guzzanti a Teo Mammuccari, fino ai cartoni animati di Pingu e alla Linea DeAgostina, ma soprattutto in molte gag di Gigi Proietti o nel fantomatico non sense usato da Tognazzi in Amici Miei, sono usati allo scopo di sottolineare la scarsa chiarezza, spesso voluta, dei discorsi.  Stiamo parlando infatti della famosa supercazzola, versione cinematografica del Grammelot usata nell’appena citato e celebre film di Germi e Monicelli,  e presente in inglese tramite il gobbledygook. Ma nell’uso delle lingue straniere, risulta anche utile come gioco didattico, potendola usare come esercizio di riscaldamento in una classe di insegnamento di lingua straniera.

Una coppia di attori ne hanno sviluppato anche un simpatico cortometraggio usando un falso inglese, come la vaga imitazione di quell’inglese percepito dai non madrelingua

A proposito, se date un’occhiata alla visita nel blog della mia primissima scuola di teatro Officina ‘O di Firenze, lì spiego come mi venne l’idea di esportare negli Stati Uniti il Grammelot in chiave didattica ← dopo aver studiato sul saggio Forays into Grammelot The Language of Nonsense   ←

In un’altra dimostrazione in un seminario teatrale che tenni insieme alla Compagnia Pazzi Lazzi  ← la cosa che più aveva entusiasmato i docenti di Lingue Straniere dei vari dipartimenti dell’ Università dell’Indiana, a Bloomington, era stato un gioco fatto di telefonate di spalle, nel quale affidavo il ruolo generale a ciascuno ma ognuno dei due aveva ricevuto dei cartellini con delle parole inventate. In questo caso il Grammelot veniva usato inconsapevolmente.

Nella dimostrazione che poi ne abbiamo dato all’Università di Wellesley, sempre con l’attrice ed educatrice Chiara Durazzini della troupe bostoniana  Pazzi Lazzi tramite un video uscito per il corso online di italiano diretto dalla docente Daniela Bartalesi Graaf del Dipartimento di Italianistica, spiegavamo la storia della Commedia dell’Arte.

 

Se ti piace il ramen e hai un odio innato verso le persone che ti stanno attorno, nell’emisfero di Brooklyn, New York c’è una locanda per introversi che offre la famosa zuppa di bistecca di maiale-verdure-spaghetti-scotti-cinesi.

Rain si era fissato a guardarne la ciotola per più di un’ora, tanto nessuno gli avrebbe sfracellato la pazienza, o quasi l’accidia. Un ristorantino nerd, hipster a puntino era lo scatto fotografico perfetto del suo odio dopo una notte passata in un locale di spogliarelliste, a spendere tutti i soldi guadagnati. E la tipa nel privé non gliel’aveva nemmeno data.

Nel frattempo, non che ci fosse chissà qualche tempo da far trascorrere visto che era uno Sneet, uno di quei single che non vanno a caccia di flirt e stanno sempre chiusi in casa di quelli che “dai vieni tu che leggiamo un libro sul divano e poi viene un sacco di gente nuova, si”- nel frattempo non aveva nemmeno nessuno impegno di lavoro da sbrigare dato che suo padre non lo dava neppure per disperso, Diego si stava guardando allo specchio. No, non nella ciotola. Leggeva Paul Auster, La Città di Vetro. Quello che aveva deciso essere il suo specchio.

New York was an inexhaustible space, a labyrinth of endless steps, and no matter how far he walked, no matter how well he came to know its neighborhoods and streets, it always left him with the feeling of being lost. Lost, not only in the city, but within himself as well. Each time he took a walk, he felt as though he were leaving himself behind, and by giving himself up to the movement of the streets, by reducing himself to a seeing eye, he was able to escape the obligation to think, and this, more than anything else, brought him a measure of peace, a salutary emptiness within. The world was outside of him, around him, before him, and the speed with which it kept changing made it impossible for him to dwell on any one thing for very long. Motion was of the essence, the act of putting one foot in front of the other and allowing himself to follow the drift of his own body. By wandering aimlessly, all places became equal, and it no longer mattered where he was. On his best walks, he was able to feel that he was nowhere. And this, finally, was all he ever asked of things: to be nowhere. New York was the nowhere he had built around himself, and he realized that he had no intention of ever leaving it again.

New York era il posto dove non essere da nessuna parte, il nulla costruito attorno. Destinato a non lasciarlo mai.

Però quella notte Rain era stato scalciato fuori da un’auto con la scritta Gentlemen Club, gli avevano preso tutto quello che aveva nel portafogli. Nel senso che i soldi li aveva spesi tutti lui. L’aveva solo vista, ma non toccata. Il manager gli aveva promesso che l’avrebbe posseduta. E lui se l’era presa per l’inganno. Poi l’avevano fatto bere 4 shots di tequila e lui da musulmano non era abituato.

Rain Rahami, qualche giorno prima però su Ebay aveva comprato delle pentole a pressione e dei cellulari per fabbricare un ordigno a comando.

New York non la conosceva, pensava, l’aveva sempre guardata da oltre il fiume, dal New Jersey. L’aveva letta tra le cronache fantastiche del Reader’s Digest. Una volta James Simon Kunen aveva detto questo nel suo The Strawberry Statement: “New York is the most exciting city in the world, and also the cruddiest place to be that I can conceive of. The city, where when you see someone on the subway you know you will never see him again. The city, where the streets are dead with the movement of people brushing by, like silt in a now-dry riverbed, stirred by the rush of a dirty wind. The city, where you walk along on the hard floor of a giant maze with a walls much taller than people and full of them. The city is an island and feels that way; not enough room, very separate. You have to walk on right-angle routes, can’t see where you’re going to, only where you are, can only see a narrow part of sky, and never any stars. It’s a giant maze you have to fight through, like a rat, but unlike the rat you have no reward awaiting you at the end. There is no end, and you don’t know what you’re supposed to be looking for. – And unlike the rat, you are not alone. You are instead lonely. There is loneliness as can exist only in the midst of numbers and numbers of people who don’t know you, who don’t care about you, who won’t let you care about them. – Everywhere you walk you hear a click-clack. The click-clack of you walking never leaves you, reminding you all the time that you are at the bottom of a box. The earth is trapped beneath concrete and tar and you are locked away from it. Nothing grows.”

Qui non cresce niente, si diceva pure Rain mentre si ricordava le parole del padre mentre vendeva pollo fritto nella gastronomia sotto casa nel New Jersey. Il primo Pollo Fritto Americano. Grandi affari di famiglia! E il consiglio comunale aveva pure chiesto di chiuderlo alle 10 di sera per le proteste del vicinato, sporcizia…rumore. Lui aveva fatto ricorso per discriminazione razziale.

Aveva abbandonato sua moglie e la figlia piccola, in due anni non la vedeva piu’ tant’ è che la ex aveva fatto richiesta di divorzio. Un’infedeltà basata sulla mancanza di fiducia.

E infatti Rain Rahimi non si fidava neanche della tenacia di una mosca sopra uno stronzo di merda. Però ogni tanto dava pollo gratis a clienti più affezionati.

I clienti lo adoravano. Lo invitavano ad uscire. E lui, meglio di un mago di scuse: “Ho un mezzo impegno, farò il possibile (a metà tra il Pinocchio e l’uomo d’affari) non ti prometto nulla, dai, provo a fare un salto (una buffa speranza), cerco di liberarmi (una promessa che arriva da Alcatraz), ti faccio sapere (bufala), ce la metterò tutta (il futuro è quanto mai sicuro), sono incasinatissimo (è una meditazione).

Se uno avesse dovuto invitare Rain, lo avrebbe immaginato come un Houdini legato con le catene. E infatti era quel sentimento muscolare di stasi che gli aveva fatto aprire gli occhi ma ancora inerte e steso sul prato, col sangue dei pugni dei bodyguard del locale delle stripper, davanti alla Cattedrale di St.John.

 

 

 

 

 

 

 

 

Quella mattina si era ritrovato prima davanti la Chiesa di Riverside che guarda il fiume Hudson all’altezza della 122 esima strada, sulla cima di Morningside e all’ovest delle comunità di Harlem sfoggia il suo gotico stile 13esimo secolo.

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La bocca impastata della notte e le percosse dei bodyguards lo avevano tramortito fino a farlo sentire in paradiso, non dal piacere. Il Mausoleo a memoria del Generale Grant, la tomba di uno dei presidenti degli Stati Uniti, dove Ulysses S. Grant e sua moglie Julia Dent Grant guardano i newyorkesi a ovest, lo aiutavano in quella sensazione di pestaggio gotico, a guglie appuntite sulla pelle.

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Appestato, Rain si incammina fino alla Fontana della Pace accanto appunto alla Chiesa di Saint John the Divine  che per lui era un’apocalisse newyorkese. I capitelli delle colonne erano stavolta le fotografie di cronaca che lui stesso avrebbe voluto scattare in un futuro prossimo. Distruzione, conflitto tra il bene e il male, Arcangelo Michele abbraccia una delle nove giraffe, una delle creature animali più pacifiche, dopo aver sconfitto Satana. Come anche il leone con l’agnello. La fontana a spirale è una doppia elica del DNA. Su una parte della fontana, la luna e il sole da una parte e dall’altra rivolge lo sguardo verso Amsterdam Avenue. Lo spettatore guarda il profilo di un angelo che sorregge la testa di una persona. Ma se lo sguardo si sposta di fronte, dal lato, l’angelo è visto cullare l’intero corpo.

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Rain ha un’illuminazione. Gli viene voglia di viaggiare. Non uno di quelli lunghi. Di sicuro sotterraneo.

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Quest’apocalisse lo sveglia e gli fa salire i nervi nelle gambe. Aveva passato mesi a spendere soldi a Pick-Up Lines, le linee telefoniche che ti danno la frase perfetta da rimorchio con le donne a soli 3 $ al minuto. Non poteva continuare ad innamorarsi ogni volta della prima gentilezza della ragazzina che passava ogni giorno dal negozio del padre per prendere un gallone di latte e i detersivi, senza che lui rimanesse come un ebete a farsi film in testa come i sorrisi di De Niro drogati di oppio da Sergio Leone. Ma il portafoglio svuotato dal Gentlemen Club e quindi la rivelazione del “Ratto della Sabine” del Bernini dell’ Hudson River gli scuote i piedi, ha voglia di camminare.  Raggiunge la metropolitana, con le sue gambe dal coraggio incosciente come quelle persone che si incontrano nei bar e già capiscono che passeranno la notte solo perché a loro piace e si divertono a mescolare molto sognando gli orgasmi più strani, maledendo chi decide le cose che facciamo,  ripassando le 36 domande per innamorarsi in 45 minuti contandole come pecore in cielo per prendere sonno, sognando di salvare paperelle sparse nell’oceano, Si addormenta in treno, stanco dalla fame.

Si era risvegliato come in un labirinto in quel baretto che serviva la zuppa di Ramen per introversi e per single. Ma dopo ore a vegliarla senza mangiare, persino il cameriere barbuto gli aveva chiesto il conto. E lui i soldi li aveva spesi tutti. “Ho una pentola a pressione, vi va bene?”.

L’aprì. E tutto finì . Compresi gli introversi, e gli hipster, gli alternativi, i figli di papà, i calati dall’alto, i libertari, gli amanti.

Gli amanti che per una notte di vino pagano 100 giorni di aceto.

Spremere v.t.=Premere con forza per estrarne sugo e umido – Acume=Dal lat.Acumen, Acùere, rendere aguzzo; in senso fig. la forza del cervello affilata che penetra il vero delle cose

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FILOTTETE MANFREDI. Blogger, Attore teatrale, Calabrese, come se la terza fosse una professione. Ho vissuto per 15 anni anche a Firenze proiettando al cinema come nel film di Tornatore, calcando teatri, lavorando nelle promozioni pubblicitarie e raccontando le news in radio: coltivando però la mia dote preferita, quella della curiosità. Poi a Boston, MA ho insegnato italiano alla Societa' Dante Alighieri, ho fatto il traduttore, la guida turistica e l'actor/performer della Commedia dell'Arte. Ho curato inoltre un podcast per l'Ufficio Scolastico del Consolato Generale d'Italia "Tutti in Classe". Nella stagione 2014 ho avviato l'esperimento comico nel programma radio L'ITALIA CHIAMO' su http://litaliachiamo.wordpress.com per poi da settembre a dicembre 2014 nel progetto radio televisivo www.litaliachiamo.com. Dalla fine del 2015 vivo a New York. Dopo tutto questo, essendo figlio e fratello di una sarta, sto cercando di ritagliare il tempo per tessere il mio primo libro di racconti.