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Peppino Jr. Pantalone era emigrato da Reggio Emilia. In America. Ma non un’ America qualunque. Lui in Italia ci stava bene. Si era messo in capo di seguire l’esempio dei suoi, senza saperlo, e poi di sconfessarlo: nel senso, che era una tradizione di famiglia ormai quella di fare una cosa e poi di fare l’esatto opposto. E allora scelse Nuova York. Peppino, il suo nome lo aveva preso da suo padre, che era nato a Cutro, un paesino calabrese vicino Crotone. Talmente abitudinari che tutti i suoi paesani, ma proprio tutti, erano emigrati e continuavano ad emigrare solo a Reggio Emilia e negli ultimi tempi, vista la densità ormai risicata, anche verso Parma. Ognuno a Cutro aveva un parente di primo, di secondo, di terzo grado che doveva aver almeno colonizzato qualche fabbrichetta emiliana. Il padre aveva continuato la tradizione cutrese, emigrare solo dove poteva incontrare altri cutresi, ma il primo a tradire anche lui fu quando incontrò poi la futura mamma di Peppino, che calabrese non lo era.
Pantalone invece lo aveva preso dal soprannome appunto della mamma sarta. Lei l’avevano chiamata così per tutta una vita da quando lavorava a Parma nelle sartorie che facevano i Burberry. Uno degli stessi lo aveva indossato anche Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany. Il figlio poi era cresciuto così, a fare i conti della serva, a cucire, a disegnare e ad aiutarla a fare gli orli ai pantaloni, e a sparare gli aghi della Singer dritti per la loro strada filata.
Peppino Jr. a questo pensava, mentre sulla Quinta strada a New York guardava incantato la vetrina di un negozio vicino al suo, con gli occhi fissi come un cervo di notte su una viuzza sterrata… ah che ricordi quei fari della Bianchina di suo zio Fefé a Cutro quando incappammo in quel bellissimo animale e lo sparammo al primo colpo! Del calabrese aveva preso il modo di sognare e di stupirsi, di meravigliarsi, dell’emiliano la voglia di correre e di ingrassare il piatto. In questo caso, si stava mangiando letteralmente con gli occhi quello che avrebbe potuto cucire anche lui, ma che la vecchiaia oramai gli dava qualche segno di resa alle mani aggrinzite.
Lui era emigrato a sua volta da quella regione panciuta e grassa di ingegno, perché a lui l’America gli piaceva, e New York all’epoca andava di moda. Gli era piaciuto sentirsi a casa piano piano negli anni, e senza avere nessun parente che lo sostenesse, come i cutresi a Reggio Emilia.
E Peppino continuava a pensarci sopra, dopo anni di sartoria, di sacrifici, di tagli, di apprendisti ne aveva avuti. Una cravatta di Marinella da 100 euro in vetrina la poteva comprare a 78 dollari solo nel 2002. E ora costava il doppio. Ma quante camicie e cappotti fanno in Europa per far valere quegli Euro se ora ci sono i cinesi? E gli inglesi che non ci vogliono più stare? Se ne andranno a Cutro? Mah.
Un ragazzo per strada gli aveva messo tra le mani un giornale, e Peppino era rimasto folgorato in un secondo da alcune parole che volavano via da un editoriale: Meridionale, Terroni, Tedeschi dell’Est, Schiavi… gli erano infatti caduti gli occhi su un’opinione che gli pareva magico non rifiutarne la lettura.
Quell’articolo a firma di un tale Pino Aprile diceva: –Per tollerare tanta disuguaglianza, non far nulla per correggerla, c’è bisogno di occhi incapaci di vederne l’iniquità o di molta disonestà per accettarla. È facile educarsi a questo, per quella “Teoria del mondo giusto” che gli esseri umani fanno velocemente propria, abituandosi a pensare che chi ha di più è perché lo merita; e chi ha meno è perché non merita altro: è un meccanismo potentissimo, che induce, per esempio, gli schiavi ad accettare la schiavitù, i cornuti le corna, le maltrattate le botte. Cercando, magari, in una presunta incapacità, personale e collettiva (“i meridionali” o “i tedeschi dell’Est”), la ragione della minorità altrui o propria e, viceversa, della propria o altrui superiorità.-
Peppino Jr. si ferma. Alza la testa dal giornale, stanco della lettura. Ma… Peppino si sentiva un meridionale? Si sentiva anche emiliano, quello sì, e si sentiva anche di un certo est, di quell’oriente nella propria pancia che non ti fa sentire il vento del perseguitato, di quello che ha paura di scavalcare il muro… e per evitare di cadere nella trappola del o scappi o non lavori, Peppino Jr. Pantalone per questo aveva avuto l’indole dello stravolgere tutto: il lavoro a Reggio Emilia non seppe mai chiedersi perché non gli bastasse, sentì che voleva dimostrare di creare con le sue mani in un’altra terra più corposa per capirne le curve. L’America. Ellis Island e poi New York. Era arrivato da Napoli, col treno da Bologna.
Quel giorno, tornando in sartoria, posando il giornale di cui avrebbe ritagliato quell’articolo, un uomo armato entra nel suo negozio, vestito da musulmano, gridando “a morte gli omosessuali” e in quel momento Peppino Jr. pensa a quando da piccolo a Cutro suo padre lo portava alla sfilata di Carnevale. Ma proprio quel vestito non l’aveva mai visto. E lui il Corano non lo aveva mai letto, era sempre stato uno che leggeva poco, un tipo più pratico Peppino. E quel barbone con la tunica gli aveva forzato di recitarlo altrimenti gli avrebbe tagliato la testa.
Eppure ne aveva vestiti di amici suoi di New York che per anni gli avevano chiesto le mises più diverse e creative per le sfilate del Gay Pride. Ma quella tunica l’avrebbe tagliata in modo diverso, pensava. Mentre quello lì non voleva sentire la musica di Peppino, se ne scappò quasi subito dopo la mitragliata con un furgone nella folla per strada.
Peppino Jr. Pantalone, mentre cadeva, pensava alla storia degli Stati Uniti, di quando l’aveva attraversata, di quando vi era salpato con la voglia di farne la nuova Reggio Emilia, la nuova Cutro, e tutta la storia gli venne davanti ai suoi occhi incantati quando quell’uomo travestito da prete gli piantò una raffica di pallottole da farlo sorridere senza pensare più a niente. Era un sorriso di ammirazione verso tutto e qualsiasi cosa che gli tirava a occhio. Era andato a fare una gita con suo marito il giorno prima in un villaggio del Connecticut, a Mystic, e gli era piaciuta per tutti i mestieri che aveva saputo riconoscere come suoi, infatti Peppino mica aveva iniziato subito da sarto…e ne aveva di doti. Quelle doti che i mericani avevano preso quando dissero di voler stare fuori dall’Inghilterra Le nostre radici stanno nel difenderci con un fucile, dissero i patrioti delle colonie del New England, alla fine del 1600.
Così da cordaio ne aveva tirato di fatica come Sacco e Vanzetti, e da fabbro ne aveva da mettere a ferro e fuoco e aizzare l’aria per soffiarla sull’incudine, tanto che quelle macchine se le sognava ancora, chissà quali esperimenti poteva ancora fare sui tessuti, tra un pentolino riscaldato a colazione e un bicchiere di vino del bottaio, e di balsami e medicine officinali lui ne era curioso quanto un alchimista perché avrebbe potuto alterare ancora i tessuti. Che io mica ne ho fatto solo uno di mestieri, fai delle foto che me le voglio stampare e mettere in sartoria!
*Tutti i riferimenti a fatti reali o persone esistenti sono puramente casuali. L’accostamento della storia inventata di sana pianta alle immagini è frutto arbitrario dell’autore.
Immaginate tutto il tempo e gli sforzi che Paul Revere avrebbe potuto risparmiarsi se solo avesse avuto uno smarthphone. Invece di galoppare nel buio della campagna, per la sua famosa cavalcata di mezzanotte, l’orafo di Boston avrebbe potuto semplicemente inviare un sms con le notizie che gli inglesi stavano per marciare verso Lexington, twittare al Comitato della Corrispondenza, e tornare ad un’ora decente. Per fortuna, i soli costi di roaming che Revere abbia mai dovuto aver bisogno erano l’avena per il suo cavallo, perché sebbene uno smartphone avrebbe potuto facilitare il suo compito, ci avrebbe privato anche di quel dramma e di quel romanticismo della Rivoluzione americana, una storia detta e ridetta in quella città lungo il percorso del Freedom Trail.
Ora, quando faccio tradurre ai miei studenti d’italiano questo incipit dall’ inglese (per la folta presenza di congiuntivi passati e condizionali che fanno anche la consecutio temporum) diventa lo spasso di ogni lezione non solo per i “se” surreali.
Ma ogni IF alla fine non è mai surreale. Se pensiamo solo al fatto che gli stranieri spesso si stupiscono per quello che gli italiani sono conosciuti o famosi… – Ogni americano conosce anche la sua di eredità nella storia della cavalcata di Paul Revere, così come il turista la può scoprire anche aiutato dalle nuovissime APP. (A Boston ce ne sono tante…quella del National Park Service che comprende il Black Heritage Trail, il percorso dell’eredità dei neri, o la Freedom Trail Official App., la Tour Boston’s Freedom Trail con videoclip e mappa dei punti di interesse. Così come anche New York non scherza in fatto di app per turisti ).
Oggi è tutta una questione di App. Non c’è mappa geografica cartacea che utilizziamo più, ma tutto ci è a portata di mano e raggiungibile. Pretendiamo che il telefonino ci dica la previsioni del tempo, gli indirizzi dei ristoranti, la pompa di benzina più vicina, l’orario dei treni… o magari un giorno ci sarà una App che ci avvisa che abbiamo addirittura un cancro.
Mi fa sempre pensare a idee di nuovi racconti come nella vignetta qui affianco e su quanto sia divertente capire quanto siamo diversi nel vivere un viaggio, nello scoprire le persone che incontriamo sui nostri passi.
Mi trovo infatti a New York qualche settimana fa e conosco un pizzaiuolo calabrese, che si chiama come me, e che lavora in una catena di pizzerie ristorante molto buone tra Brooklyn e Manhattan, Numero 28, fondate da una famiglia di suoi conterranei. Lui si è trasferito avendo parenti tra i soci, mi pare, ma il motivo vero per cui è scappato dalla sua di eredità è il solito caso burocratico che ti scoraggia dall’andare avanti: mi racconta che in Italia vendeva protesi sanitarie e lavorava con le aziende pubbliche, ma che aspetta ancora 60mila euro di arretrati dalla Regione Calabria. Nell’attesa di anni di contenzioso, meglio galoppare verso qualcosa che ti faccia sentire vivo, mi dice mentre assaporo quel sugo di pomodoro così dolce della pizza. E non so se sognare ai miei sapori perduti o arrabbiarmi.
Nel vagare della notte newyorkese, dopo quella storia, mi incanto nella nebbia che avvolge la città a volte di sera, la copre sulle cime e la punta dell’Empire State Building, e sembra sia lo specchio naturale che la fa riflettere nella vita dei commerci, mentre tra i vicoli e le corti sporche dei palazzi i piccioni covano il loro uovo sui davanzali, penso a quei gruppi di cani con il dogwalker che ho visto nel pomeriggio assolato e che seguono l’uomo all’ombra, lo seguono senza un contraccambio. New York è anche questi attimi lenti, anche se ti da l’impressione di correre…. ma scodinzola al primo segnale che stai per amarla, vola alta…senza aspettarsi niente.
È una questione di cellule, cantava Battisti. Quei piccoli quanti a cui ogni giorno ci affidiamo per cercare di soddisfare i nostri bisogni di orientamento, di sicurezza, di aspettative e grandi speranze, per dirla alla Dickens, oggi sono sui nostri smartphone che vanno più veloci delle nostre idee. I nostri immigrati allo sbaraglio non ne hanno mai avuto bisogno in passato, hanno sempre dato fiducia al loro intuito sul come vivere la vita americana. Persino Paul Revere non aveva che una bussola
Perché più ci penso… e più credo che alla fine la “App” più azzeccata è quella sulle eredità, quella bussola che mi porto appresso è da rintracciare nel tragitto che ha fatto quel ragazzo calabrese che aspetta ancora il credito dalla sua terra, e con tanti sforzi ma con soddisfazione ha preferito servirmi una pizza più buona, a New York. Tutto forse per tramandare la sua di eredità. Se solo quella terra del Sud l’avesse capito prima, non avrebbe avuto bisogno di iniziare contenziosi con chi voleva semplicemente darle il suo lavoro, senza consecutio temporum, senza se e senza ma.
Si dice che l’americano non aspira ad essere autentico, ma ama essere contaminato. Ama essere cambiato per nutrirsi di energie. A volte è così.
A volte è anche vero quello che diceva David Herbert Lawrence, che quando un contadino italiano lavora, la sua mente e i suoi nervi dormono, è il suo sangue che agisce e pensa. Quando un americano invece fa qualche cosa non sta veramente facendo qualcosa, se ne “sta occupando”. Gli americani “sono sempre occupati” intorno a qualche cosa, mai impegnati ad agire con la “coscienza del sangue”.
La ricerca della felicità, sancita per costituzione, è la causa del Live it and Let Live che si può toccare quando si percorrono spazi aperti e si incontrano le persone del Sud. Vivi e lascia vivere. Ma dove vivere? Dove andare? Non importa dove, scriveva John Fante, l’importante è andare.
Se non sapete quali sono le strade dove viaggiare in America, ← ci ha pensato l’ottimo blogger di viaggio Dario Celli, giornalista, che è andato on the road a scoprire piccole chicche. Si è trovato davanti, come quando si fa inevitabilmente la scelta del viaggio d’avventura in solitaria, alcuni piccoli tesori nascosti tra le strade deserte d’America. ←
Sulla sua scorta, come pellegrino del Sud degli Stati Uniti, tempo fa mi venne la voglia di passare dalla Interstate 75 che va dal Nord del Michigan e scende fino in Florida. Sono riuscito ad assaggiarla soltanto, per ritornare alle mie radici dei frutteti del Sud. Solo per un’ora e mezza tra Atlanta e Macon, in Georgia, dove quest’ultima città è sede di un paio di palazzi d’epoca della Guerra Civile oltre ad aver dato i natali a Otis Redding. Eccoli quei ritmi lentissimi…..
Attraversare le campagne dello stato della Georgia, il mese scorso, mi ha portato a conoscere sulla propria pelle, a sentirne il vento e quasi la febbre, la vita di quell’ estraneità della frontiera.
Isn’t that something? Questa frase ha pronunciato spesso il tuttofare della casa dove sono stato ospite alle porte di Atlanta. Una frase che voleva raccontare meraviglia di qualsiasi cosa… curiosità di tutto.
È una persona semplice, Bob, perché la sua unica preoccupazione è il suo orto che ha lasciato a casa, ed è venuto solo qualche settimana per aggiustare le fondamenta della casa dell’amico in Georgia, e lo ha fatto arrivando col suo truck viaggiando 12 ore dall’Arizona e poi riposandosi in qualche motel per qualche ora per poi ricominciare il viaggio. “Ah, tu ti intendi di teatro? Wow … di maschere e di Commedia dell’Arte? Isn’t that something?” – mi chiede. Poi mi domanda cosa siano i cosplayers, li ha letti su una rivista di cinema. Io gli dico in fretta che sono un po’ come i cartoni animati, delle persone a cui piace mascherarsi e sono nati da una tendenza dei giapponesi amanti dei ruoli fantascientifici del cinema. Bob, con i suoi vestiti sporchi di calce, segatura e lavoro mi sorride stupito, lui queste cose non le vedeva nel deserto dell’Arizona. Poi gli faccio vedere che ho visitato la casa dove la scrittrice Mitchell ha vissuto e si è ispirata per scrivere il romanzo Via Col Vento. Lui mi guarda con quegli occhi profondi, senza levarsi il suo cappello da lavoro. Sorride e non commenta.
Il giorno che me ne riparto, esce a piedi scalzi per salutarmi. Prima di darmi un’altra delle sue foglie selvatiche medicinali (lui la chiama PokeWeed ←) che lui ama seccare e mangiarne una al giorno, mica soltanto perché era una medicina dei Nativi.
Prima che prendessi il volo di ritorno per Boston, mi lascia una lettera… e capisco subito che è una di quelle liste tipo catene di S.Antonio, attribuite talvolta a qualche poeta e che girano virali su internet. Ma la leggo e la trovo invece diversa dalle solite smancerie. È una lista di consigli utili in cui mi ritrovo in quel viaggio:
Scappa da una persona che ama mangiare a tavola da sola o da solo, che pretende che la/lo baci come vuole lei/lui. Scappa da chi non ti fa fare l’uomo in casa, o la donna in casa.
Esprimiti sempre, non fare l’errore di sentirti superiore nel dire “tanto non mi capisce”.
Non mentire mai a te stesso: è una copertina della tua inferiorità e del non riuscire a reagire davanti ai rifiuti degli altri.
Ogni giorno prendila come un dono, abbassa le aspettative; e non supporre cosa pensano gli altri, chiediglielo. Chi non da valore a ciò che ha, un giorno si lamenterà per averlo perso e chi fa del male un giorno riceverà ciò che si merita.
Non permettere a nessuno di abbassare la tua autostima. Ma non urlare nemmeno, perché significa abbassarsi alla violenza degli altri.
Bisogna essere forti e sollevarsi dalle cadute che ci pone la vita.
Prima di discutere, respira; prima di parlare, ascolta; prima di criticare, esaminati; prima di scrivere, pensa; prima di ferire, senti; prima di arrenderti, tenta; prima di ferire, senti; prima di arrenderti, tenta.
Se vuoi essere felice, rendi felice qualcuno; se desideri ricevere, dona un poco di te.
Non rovinare mai il tuo presente per un passato che non ha futuro.
Quasi come se fossi incantato e obbligato a contraccambiare, gli lascio come dono la stampa di un foglio a caso che avevo in borsa tra scartoffie e appunti… era un articolo che parlava dei 7 modi di come la cultura italiana cambierà la tua vita ← Diceva che la cultura italiana rischia sempre di spingerti a mangiare soltanto prodotti locali, a mangiare di più nei pasti ma di fare meno snack, a bere più caffè, ad essere più emotivi (perché gli italiani sono famosi per essere sia più sensibili← e drammatici sia più diretti rispetto ad altre culture); che la cultura italiana ti spingerà ad avere un tocco artistico, e ad avere anche legami familiari.
Bob lo legge, mi sorride in silenzio. E pensa a quella famiglia lontana, con quella sensibilità che si trova per caso in ogni Sud del mondo.
Tutto rimane fermo dentro il famoso diner di un dipinto di Hopper.

I luoghi del dipinto Nighthawks di Edward Hopper sono rintracciabili in certe tracce di Greenwich Village a New York, ma anche a locations da lui immaginate.
Ma tutto deve cambiare nella terra del “tutto è quello che viene mostrato”. Anche con i nostri gesti facciali.
Niente rimane. Tutto è in movimento, anche certi edifici di Boston. Ma non certe persone.
Stavo seduto a mangiare il mio panino nell’ora di pausa pranzo. A quell’ ora c’è chi nel frattempo legge il giornale o chi controlla la posta elettronica. Davanti a me avevo invece un dipinto contemporaneo. Mentre mangiavo, mi sono ritrovato davanti un redivivo Dejeuner sur l’herb però ambientato su un salottino retro e vintage. Bivaccati due ragazze e due ragazzi che, in mezz’ora, giuro ho contato i minuti, non si sono detti niente. Erano ipnotizzati a guardare i loro cellulari “intelligenti”, a scorrere foto e status di gente –amici?- che stanno al di fuori, che vivono a loro volta altri divanetti di silenzi.
Se chiudete gli occhi e l’osservate anche voi quella immagine, sembra fissa come nei quadri di Hopper… è una pennellata di solitudine dell’ americano medio, lo sfogo compulsivo delle dita nel vano tentativo di sapere come vivono e come stanno gli altri. Ma perché per chiedere “Che fai? Come stai?” questi quattro ragazzi non parlano tra di loro, non si guardano negli occhi ma solo nei loro profili?
La scrittrice Avallone dice che “l’amore è il contrario di tutte le menzogne che ci diciamo per raccontarci la vita che non stiamo vivendo”. Vuol dire che in realtà, quando anche noi siamo come quei quattro ragazzi svogliati sul divano, volevamo un’altra vita e la cerchiamo nei feticci degli altri? O non avevamo il coraggio di dirlo a noi stessi finendo poi per mentirci da soli?
È di questo di cui volevo raccontare. Il mentire a sé stessi – come ha fatto il giocatore Tom Brady – è una delle cose che a nessuno è consigliato di fare. Pena la squalifica.
Ogni italiano o italiana che espatria per fare un esempio, con lui o lei della coppia di un paese diverso, quell’italiano e solo lui sarà stato a scegliere liberamente questa vita, senza alcuna costrizione. Inutili i rimpianti, invece di fingere con sé stessi e stare lì annoiato
Ciò che per una parte della coppia può essere un sacrificio poi non può esserlo per un’altra. Ciò che per uno è sforzo, privazione, sofferenza, può essere normale o accettabile per un altro. Se ne parla nel blog di Mamme nel Deserto, che citando lo psicologo Morelli si affronta il tema del sacrificio: “Sacrificio fa rima con altruismo, tutti quelli che fanno il volontariato, la prima cosa che devono fare è raccontarlo a destra e a manca per far vedere quanto sono buoni”. E state lontani da quelli che dicono che “fanno sacrifici per te, perché prima o poi te la faranno pagare!” – Forse per questo è meglio esser sinceri con la propria anima.
Chi arriva poi in un paese che sente anche straniero, deve affrontare quelli che tutti prima o poi hanno vissuto: la solitudine. Proprio come nei quadri di Hopper. Sempre Mamme nel Deserto ne ha pubblicato un kit di SOS amici
È proprio di questo kit salva-solitudine di cui M. avrebbe bisogno. Chi è M.?
M., lo chiameremo così, è un uomo che ha scritto la sua recente storia sotto forma di sfogo, su uno dei tanti gruppi di Italiani in America che spopolano sui social networks. La ripubblico qui sotto perché merita di essere ascoltata tutta di un fiato. Questa volta non è un raccontino arrivatomi per cassetta postale. La sua storia è vera. Ho solo cambiato i nomi, i tempi, rimaneggiata un po’ e trasformata in terza persona, agganciandola alle ambientazioni che la menzogna o la contraddizione spesso sa dipingere bene.
Buona sincera lettura.
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M. lavorava da otto mesi per una azienda di grafica di Mooresville nel North Carolina. Fece un’errore che gli costo` caro: “Wow Jane, i like your dress a lot!” (Trad.: Wow Jane, mi piace molto il tuo vestito) disse un giorno ad una collega.
Il giorno dopo gli arrivo` una email dal dipartimento delle risorse umane che gli chiedeva di incontrarsi a fine giornata nell’ufficio del manager… qui gli comunico` che qualcuno si era lamentato del suo modo di parlare molesto consigliandogli di contenere il linguaggio.
Lui ne parlo` con Jane scusandosi se era stato inopportuno, ma lei gli giuro` che non era stata lei a fare il report.
Alla fine della settimana, alla consegna dello stipendio, gli venne annunciato che doveva raccattare le sue cose in quanto la sua posizione era stata terminata in virtu` del suo comportamento inopportuno in ufficio e che aveva messo a disagio delle colleghe.
Insomma, si trova licenziato senza sapere neanche per colpa di chi… e soprattutto per qualcosa che non credeva di aver fatto! M. chiese la paga di disoccupazione perché era stato licenziato senza una ragione valida, ma l’azienda ricorre in appello dicendo che non gli spettava in quanto aveva molestato alcune dipendenti.
Per fortuna l’Employement Security Commission voterà poi a suo favore in quanto se M. avesse fatto qualcosa del genere, o avrebbe dovuto ammetterlo spontaneamente, o avrebbe dovuto fornire una prova tangibile come una denuncia formale che provasse di essere sotto accusa.
Fortuna volle che M. non ebbe bisogno della paga di unemployement per più di una settimana perché riuscì a trovare un lavoro di ripiego subito in un’altra azienda situata a Huntersville, sempre nel North Carolina.
Al suo secondo giorno di lavoro entrò però lo scheriffo in ufficio e venne alla sua scrivania di studio di grafica, dove la bellezza di solo 6 persone condividevano quella stanza, e senza tanto batter ciglio e senza tanta privacy gli annunciò davanti a tutti e sei che era stato citato in tribunale con l’accusa di molestia sessuale sul posto di lavoro.
Subito inizio` tutto un bisbigliare, M. si difese dicendo che non era nulla del genere ed era una ripercussione relegata al fatto che il suo precedente datore di lavoro voleva negargli l’unemployment.
Il mese dopo, in aula, finalmente M. scopre chi era stato a lamentarsi… non era Jane, perché nel frattempo con lei si erano tenuti in contatto e ne era nata una relazione durata poi quasi 2 anni… no non era affatto lei, quella che si era lamentata, anzi quelle, erano due colleghe che avevano sentito il suo complimento al vestito di Jane: “ci siamo sentite in pericolo perché le sue parole facevano capire che M. la osservava con intenti sessuali.”
L’avvocato di M. era riuscito poi a convincere il giudice di non essere un molestatore e semplicemente che in Italia è normale scambiarsi battute fra colleghi di ufficio.
Il caso venne dichiarato dismissed (ossia “accuse cadute”) con la condizione che M. avesse dovuto seguire un corso di due giorni sul “sexual harrasment” cioè la molestia sessuale e le regole per evitarla. M. rimase senza parole, le cose che insegnano a quel corso è che fra colleghi bisogna parlarsi guardosi in faccia o guardando altrove evitando di osservare altre parti del corpo e non ci si può scambiare complimenti perché seppur accettati dal/la collega a cui diretti potrebbero far venire soggezione ad altri colleghi/e e che comunque il posto di lavoro non può essere un punto di incontro per iniziare relazioni.
Insomma, per legge il lavoro deve essere palloso. Almeno per lui.
Perché inizia a domandarsi allora dove uno dovrebbe conoscere altre persone per instaurare una relazione… salvo che uno non viva in una delle grosse città, nelle città normali si va da casa al lavoro, e basta, alle 8 di sera la gente ha cenato ed ha finito o sta finendo di vedere un film ed è già a letto!
Dove puoi stringere una relazione interpersonale stando al di fuori delle ore di lavoro? Guardando un bicchiere di birra o alcol seduto da solo in un bar come in un dipinto di Hopper?
Mistero… perché luoghi di ritrovo non ce ne sono, le piazze sono una cosa sconosciuta, i bar son sempre vuoti e venerdì e sabato sera dove ciò che ci trovi è poco di buono perché ci van solo ubriaconi…. magari fra le ubriacone del weekend trovi una che alla fine non è poi così male… ma valla a trovare te!
Se ci parli sul posto di lavoro ti denunciano perché le fai un complimento, ma quando le incontri al bar nei weekend, non serve fare complimenti sul vestito perché tanto se lo tolgono prima, insomma un controsenso assurdo per M.
Tanto per esser precisi, a seguito della sentenza, pur avendo vinto, ad M. lo licenziarono perché se il giudice gli aveva ordinato di fare il corso, a loro avviso significava che probabilmente qualcosa di male lo faceva, e siccome erano in procinto di essere acquisiti da una azienda più grossa, una condizionale dell’acquisizione era non avere dipendenti con cause legali pendenti. Guarda caso la causa di M. era appena terminata, e seppur vincitore avevano preferito licenziarlo. Ma almeno questa volta la paga di unemployment M. l’aveva avuta!
Peccato fosse bastata appena tre mesi e mezzo di lavoro, quindi molto bassa.
Decise dunque di cambiare aria, andando lontano da Charlotte e tentare ad andare in giro attorno ad Atlanta, trovare lavoro a Cummings, una città nella Georgia in un’azienda che disegna grafiche per carrozzerie e camion.
Ecco cosa M. aveva imparato dall’America: qui ti pagano bene, profumatamente… In Italia se lo sognava un lavoro da 20 dollari l’ora più straordinari (che quasi mai gli permettono di fare perché non vogliono doverglieli pagare), in Italia prendeva 850 Euro al mese ed era obbligato a lavorare decine di ore di straordinari mai pagati, gli era capitato di stare fino alle 3 del mattino a lavorare in tipografia in Italia! Per questo aveva scelto questa vita. E non si sarebbe sognato di ritornare anche per l’assenza di meritocrazia. Qui invece negli Stati Uniti alle 5.30 ci si defila!
E non ci si defila al central perk di “Friends”, no perché neanche esiste un locale così, se non appunto in città come New York, Atlanta e simili, ma lì per vivere i 20 dollari all’ora non ti bastano; per vivere nelle belle metropoli dei film devi essere milionario, e quello la televisione non te lo mostra, perché la verità è che l’America la vedi meglio su “Settimo Cielo”: cittadine di poche decine di migliaia di abitanti che durante la settimana si comportano tutti da santi e giudicano chiunque, poi già il venerdì sera si danno all’alcol pesante e tutta la loro bigotteria sul sexual harrassment viene messa da parte perché vanno a letto con chi gli capita e la domenica tutti in chiesa a predicare che certe cose non si fanno.
E queste son le ragioni per cui si era lasciato con Jane (ogni venerdì sera tornava a casa da lavoro ed incassava l’assegno dello stipendio dal benzinaio e tornava a casa con una cassetta da 12 birre che puntualmente finiva entro sabato sera)… e di recente si era lasciato anche da un’altra, Memy, che dopo quasi un anno di convivenza gli aveva detto che non poteva accettare di vivere con uno che non va in chiesa ogni domenica e che la gente parla del fatto che lei vive con uno impossessato dal diavolo…ma quando M. le aveva fatto presente come si erano conosciuti (lei era ubriaca al bar e lui l’aveva rimorchiata proprio quella sera stessa) o quando M. fece notare a Memy che lei puntualmente ogni sabato andava con le sue amiche al bar da cui poi la chiamava perché la andasse a prendere perché era troppo ubriaca per guidare… Memy non ci pensò due volte a mollarlo perché “sei troppo judgemental (giudichi troppo)!”
Se fai un complimento ad una al lavoro ti giudicano stupratore e ti crocifiggono, ma se lo fai il sabato sera da ubriaco, tutto è permesso e non è giusto giudicare.
In America fuori dall’ufficio c’è solo un parcheggio, con tante tante auto, ed appena si esce ciascuno sale sulla propria, senza neanche salutarsi, al massimo un cenno con la mano sul volante… e via, a casa a cenare alle 6 di sera.
E che dire delle amicizie americane. M. vive qui da 8 anni, ancora in amicizia con i suoi due più cari amici in Italia, ma qui in America… gli amici sono amici di bevute, ma non come in Italia che ci si fa uno spritz assieme -oggi offro io per tutti, domani offri te- no, qua ognuno fa il suo, conti separati sempre… e se chiedi un favore in amicizia, la risposta è: “quanto mi dai?”
Una volta ad M. gli si era rotta l’Auto ad Atlanta e dovette lasciarla lì da un meccanico e chiedere un passaggio ad un amico, Brad, il quale era uno dei vicini di casa con cui tante volte si fanno grigliate assieme… Brad gli disse che non c’era nessun problema, tra Cummings ed Atlanta ci sono circa 45 minuti di strada: lui lo venne a prendere, poi quando erano quasi vicino casa, si era fermato dal benzinaio, e senza neanche fare il gesto di scendere dall’auto lo aveva guardato come dire: “beh, almeno mi paghi il pieno…”
Si ovvio, M. senza batter ciglio gli aveva detto: “fermo fermo, pago io”, scende e gli paga il pieno, ma ripensandoci dopo, ad M. gli era rimasta la curiosità di cosa gli avrebbe detto quando lo stava guardando se non lo avesse anticipato.
Camilleri nel suo racconto La Relazione descrive il sentimento del personaggio che più si avvicina a volte alla storia di M: “Lui non prova nessuna emozione, niente. Si sente un uomo solo, che cammina nel deserto di una banchisa polare”.
Infatti anche M. e Brad si conoscono da 3 anni, bene o male ogni weekend combinano qualcosa a turno nella casa dell’altro; a volte arrivano altri conoscenti, ma non è amicizia, è più un tenersi compagnia per far fronte alla solitudine, in fin dei conti Brad ha 45 anni, divorziato da più mogli e 3 figli da 2 mogli diverse, e vive a casa da solo, ed M. vive da solo. E viveva da solo anche quando si erano conosciuti. In un bar, guardando ebetiti un bicchiere pieno di birra. Proprio come in un dipinto di Hopper.
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